Qualche giorno fa, ho fatto un salto a Venezia: andata e ritorno in giornata.

Arrivati in stazione: bagni a pagamento, cassieri stanchi, controllo dei biglietti dei traghetti inesistente, costi alle stelle, gente ovunque

In passato mi mettevo molto raramente nei panni dei clienti.
Oggi faccio la vita che avrei sempre voluto, anche se non ho smesso di avere obiettivi di crescita e miglioramento.
Ricordo perfettamente che nei momenti peggiori affermavo che avrei lasciato la Sardegna, l’avrei rinnegata con disprezzo per la sua incapacità di essere materna con i suoi abitanti non qualificati, e ci sarei tornata solo per le vacanze.

Amo la mia terra – non sarei mai capace di odiarne il profumo e la sensazione di casa che evoca in me tutte le volte che scendo dall’aereo – ma in effetti rientro, letteralmente, solo per le vacanze estive e occasioni particolari, e continuo a sentire la sensazione che non esista uno spazio per me, lì.

Dopo aver fatto qualche giro tra le calli della penisola, abbiamo preso il vaporetto per Murano, alla ricerca di qualche pezzo unico, prodotto in vetro dagli artigiani dell’isola.

Siamo entrati in diversi laboratori e negozietti e parlato con tanti commercianti.
A Murano, la maggior parte dei negozi sono gestiti dai diretti produttori o da familiari degli artigiani che hanno realizzato i manufatti in vendita.

Cercavamo dei dadi in vetro e un negoziante ci ha consigliato un negozio “poco più in là” dove avremmo avuto la certezza di trovarli.
Siamo così approdati al B69.
Abbiamo acquistato i dadi e un busto in vetro e con l’occasione ho chiacchierato con il gestore del punto vendita, che ci ha spiegato – come è norma da quelle parti – che il produttore di quasi tutti i pezzi è suo parente e che invece lui si dedica alla lavorazione solo saltuariamente.

Si deduceva fosse Muranese da generazioni, ma quando gli ho chiesto se abitasse lì mi ha detto di arrivare da “fuori”. Non ho approfondito per capire se intendesse Venezia o ancora più lontano.

Sembrava sottinteso che in quel punto specifico della regione sarebbe stato troppo difficile vivere, il tono faceva intuire fosse ovvio (e la mia domanda assurda).

E lo capisco, nel giro di pochi secondi ho realizzato quanto sia evidentemente invivibile una cittadina prettamente turistica come quella.

Magnifica, per i musei e laboratori fronte strada.
Colorata di raggi del sole rifrangenti nelle viscere delle sculture in vetro.
Profumata di materiali modellati con la fiamma ossidrica, salsedine e piatti a base di pesce.

Ma anche satura di persone che entrano ed escono dai negozi e si accalcano davanti a gelaterie e ristoranti.
Invecchiata dall’ossidazione evidente dell’opera viva dei vaporetti e di qualsiasi altro elemento a contatto con l’acqua che accoglie il visitatore alle fermate o lungo le sponde delle acque lagunari.
Fortemente attrattiva d’estate, sfruttata e depredata dalle folle nei periodi più belli e molto probabilmente trascurata quando il sole si nasconde e il vento umido marino concorre a renderla meta ostica.

Come vivono le persone di Murano?
Se sono nate e cresciute nell’isola, avrebbero diritto a vivere nella loro terra senza subire gli eccessi di questo love bombing intermittente?

Sono domande che riesco a farmi perché per una vita intera me le sono poste e, anche se il turismo è la principale fonte di guadagno per territori come Murano e Cagliari, la necessità di sopravvivere non deve rendere ciechi rispetto alla legittima necessità del popolo autoctono di condurre uno stile di vita dignitoso.

Credevo che alzare i prezzi per sfruttare il periodo breve di forte afflusso fosse un trend del sud, come anche l’affanno di sfruttare la giornata “buona” di bel tempo puntando a massimizzare ossessivamente le vendite.

Sono atteggiamenti di scarsità che sottintendono una fame insoddisfatta per lungo tempo.
Ma non sono l’unica garanzia per sopravvivere.

Ho conosciuto la mentalità dell’abbondanza in terre in cui, anche se il turismo si intensifica in una specifica stagione, la capacità di commerciare valorizzando i punti di forza in qualsiasi condizione permette una distribuzione equa dell’indotto durante tutto l’anno.
La sicurezza di saper provvedere al fabbisogno personale e dei propri collaboratori rende gli imprenditori capaci di progettare nelle lunghe distanze.
Evitando di estremizzare spese, costi, risorse e servizi.

Guardo al mio passato e ricordo quel 15 febbraio 2015.
In inverno, i miei titolari al ristorante e al bar mantenevano il personale full-time all’osso.
Turni full-time, che raddoppiavano all’occorrenza.
Turisti e cittadini che nelle improvvise giornate di sole di febbraio si riversavano nei locali al mare, si vedevano servire da una cameriera con la faccia sconvolta dalla sveglia alle 4 di mattina e dalle successive dodici ore in piedi.

Meglio perdere la faccia offrendo un servizio scadente ad un turista che sicuramente è pieno di soldi e non farà comunque una vacanza futura nello stesso posto, piuttosto che perdere la faccia con un cliente abituale, una persona “del posto”.
E così coccolavamo con sconti e trattamenti di favore i soliti avventori e avevamo come priorità fare la cresta a quelli che “oggi ci sono, poi chi li vede più”.

Offrire un’esperienza piacevole ai turisti non deve pesare solo sulle spalle dei lavoratori e deve fare parte di una strategia aziendale costruita con mesi di anticipo, attraverso una comunicazione efficace e l’attenzione verso il caro e vecchio passaparola.

Le persone parlano (e recensiscono on-line).
Non vale più l’illusione che fare la cresta al turista non sia deleterio: ci si può compromettere il lavoro futuro grazie al suo cattivo passaparola o alle recensioni spietate sui siti in cui il parere del consumatore è al centro.

Sogno una città turistica che sappia gestire le sue risorse migliorando i suoi punti deboli, non puntando unicamente su quelli forti, e distribuire un offerta piacevole lungo tutto l’anno, studiata ad hoc per ogni stagione e ogni tipo di pubblico.

Da quando sono andata via dalla Sardegna, mi hanno insegnato che si può anche andare oltre il “noi siamo fatti così, prendere o lasciare”.
Credo che sarà un concetto che vorrò portare indietro con me, quando tornerò a casa.

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