Questo sorriso lo riesco a fare adesso, con la piccolina in braccio, con un po’ di serenità ritrovata, con la speranza nel cuore, con la voglia di combattere e ricostruire tutto.

Ricostruire la normalità, principalmente.

E ricostruire la certezza che uscirò dalla porta di casa, per ritornarvi e ritrovare la mia mamma lì ad aspettarmi con la tv puntata sul canale Vero, intenta a guardare la puntata giornaliera di Betty la Fea mentre controlla anche le pentole sui fornelli e contemporaneamente chiacchiera allegramente con il cagnolino che le ronza intorno aspettando che si sieda sul divano per accucciarsi a lei, farsi coccolare, ricevere da mangiare – come un uccellino – dalle sue  mani, Paty odia la ciotola fucsia che le ho regalato…

La mia mamma mi ha fatto una sorpresaccia due giorni fa, e io sono crollata con le ginocchia per terra, perché la amo infinitamente e il filo che mi lega a lei si è ritirato improvvisamente strappandomi da qualsiasi altra cosa stessi facendo, lasciandomi sgomenta e fragile.

Appena uscita di casa, con una tabella di marcia piena e un saluto veloce a tutti, sono in marcia sulla statale, ho percorso quasi la metà del primo tratto e squilla il cellulare… il numero non lo conosco ma rispondo, non ipotizzo nulla, non posso immaginare.

Uno sconosciuto mi dice che ha appena incontrato mia madre in una strada vicina a casa e chiede se posso rientrare da ovunque mi trovi, perché lei sta male e non riesce a respirare.

“Certo che rientro, ora ritorno indietro, cerco un punto in cui fare inversione. Provo a chiamare mio fratello, lui è in casa, è lì vicino!”

Voglio sentire la sua voce, ma non me la passano, non riesce a parlare…

Chiudo il telefono e provo ad avvisare mio fratello, che è in casa, a pochi metri da dove è successo tutto… ma non squilla nemmeno, parte subito la segreteria e non riesco a contattarlo. Chiamo il numero di mia madre, magari riesce a parlare… invece risponde sempre quello sconosciuto. Mi dice che l’ambulanza sta arrivando e che la portano in ospedale.

“No, la voglio vedere prima che la portino via!” dico. E non sono minimamente cosciente di dire una grande cazzata, perché lei peggiora nel giro di pochissimi minuti e io devo aspettare, anche se vorrei essere lì e abbracciarla, per dirle di stare calma, che sopravviverà a tutto, che arriverà qualcuno per aiutarla…

Invece sono distante da casa – porca puttana! – sono diretta nella direzione opposta e piove a dirotto, c’è un freddo stronzo, mio fratello non risponde e non riesco a trattenermi dallo sclerare maledettamente mentre schiaccio l’acceleratore e punto casa appena riesco a fare un’inversione a U al primo semaforo incrociato sulla via.

Semafori rossi, come se niente fosse successo, macchine lente e veloci, e io che approfitto di ogni spazietto per intrufolarmi e risparmiare tempo.

Mi richiama mio fratello e mi chiede come mai gli abbia fatto tutti quei tentativi di telefonata.

“Scendi giù, c’è mamma che sta male…” lui chiude il telefono senza aspettare che io possa aggiungere altro, prende al volo le chiavi di casa e non controlla neanche che le luci siano spente… sentiva l’ambulanza vicino a casa, credo gli sia venuto un brivido gelato a sommare le due cose.

Io urlo e impazzisco mentre continuo a correre verso casa, poi penso che se non avviso subito mio padre, potrebbe non perdonarmelo mai. Compongo il suo numero, sono cosciente di avere una notizia di merda in mano, sono cosciente di non sapere nemmeno quali parole sarebbe più giusto usare in casi simili. Risponde con un tono allegro e mi da un fastidio infinito pensare di dover cambiare tutto, cambiare le sue carte in tavola, dargli la notizia e fargli saltare il cuore in gola. Cazzo, non voglio doverlo fare.

Mi bastano poche parole, cerco di fare una premessa veloce e non preoccupante, però non posso girarci attorno.

Lui si sgancia e parte, io sto arrivando al bivio che porta alla zona dove abito, vedo i lampeggianti in lontananza. Le ambulanze sono già lì, e per una cazzo di volta mi riguardano da vicino, per una cazzo di volta non posso toccare ferro per dire “speriamo non riguardi me o chi mi è vicino”, perché questa cazzo di volta mi riguarda.

Arrivo, infilo il muso della macchina nel primo spazio libero e mi lancio fuori, chiudo tutto e raggiungo mio fratello.

Lei è dentro l’ambulanza. Non riesco a vederla, non sono arrivata in tempo per vederla, l’ambulanza è stata tempestiva, l’intervento dei medici è immediato, ma io ho il cuore in gola e non c’è modo di capire qualcosa.

Penso di tutto.

Quando ho ricevuto la prima telefonata penso che possa trattarsi di un attacco di panico, penso che ha avuto una crisi legata alle preoccupazioni quotidiane che normalmente cerca di “superare”, mi viene subito da fare mente locale per capire se prima di uscire da casa abbiamo alzato la voce discutendo, se ci siamo scontrate, se io ho fatto -come sempre – la superiore rompipalle, se ho fatto la saccente… cerco di ricordare se ho fatto qualcosa di valutabile idiota, con il senno di poi.

No, prima di uscire parlavamo di lavoro, parlavamo normalmente di aneddoti del presente e del passato, e lei era lì in piedi, seduta, come al solito, come sempre. La mia importantissima roccia, il mio porto sicuro.

E, cazzo, il mio porto sicuro era lì dentro quell’ambulanza ferma in strada che, senza nessuno di noi vicino, subiva gli effetti di una crisi improvvisa, senza ossigeno, senza capacità di capire cosa stesse succedendo, senza via d’uscita, senza certezze!

Mi spacca il cuore pensare al panico che possa aver provato, mi spacca il cuore perché sarei voluta essere lì, a sostenerla al primo mancamento, a chiamare io l’ambulanza, a dare le indicazioni utili e a tenerla avvolta dal mio abbraccio per tranquillizzarla, a spaccarmi il petto per darle tutto l’ossigeno che le stava mancando!

Fuori da quell’ambulanza, in attesa di avere qualche notizia, in un momento in cui ero sola, ho pianto come una bambina, in mezzo al gelo. Andavo avanti e indietro e iniziavo a sentire addosso la forza brutale di tutto ciò che era successo e che ancora non capivo come dover interpretare. Non potevo ancora sapere se avrei potuto rivederla presto. E impazzivo all’idea che non ero arrivata in tempo per dirle che stavo lì fuori a vegliare su tutto!!

Poi è arrivato mio padre, abbiamo avvisato l’altro fratello, l’altro ancora era a scuola…

C’eravamo quasi tutti, non ero più da sola a sentire quel macigno sulla testa, anche se non cambiava il peso della cosa.

E’ andato tutto avanti troppo piano, il tempo non passava mai, mentre in due siamo rientrati a casa, gli altri due sono andati in ospedale seguendo l’ambulanza.

Ho preso in mano le redini della situazione ed ero fuori casa mentre mio fratellino, tranquillo e sereno, di rientro da scuola si è visto informare dall’altro fratello della triste notizia.

“Sono a casa” è il messaggio che ho avuto da lui. Significava “Rientra al volo e andiamo da lei”.

Il piccolo è uno spiccio, e sapevo si sarebbe incazzato come una iena al pensare di non essere stato lì, di aver continuato come nulla fosse successo per ore e ore mentre la nostra mammina invece prendeva in pieno una buca. Mi ha detto che avrebbe voluto saperlo, sarei dovuta andare a prenderlo prima dell’uscita regolare, per un motivo così importante.

Ho cercato di essere pratica, ho cercato di fare le scelte più produttive, nonostante il momento di crisi.

Appena siamo arrivati al pronto soccorso in cui era stata portata, mio padre era già dentro, convocato per essere informato della situazione. Noi figli fuori. E io continuavo a pensare e ripensare al fatto che fosse sola, al fatto che il panico che può aver vissuto non lo voglio provare a immaginare, al fatto che non voglio lo abbia potuto provare!, più penso e più piango, ho costantemente le lacrime in tasca, ho un pugno che mi stringe le viscere e che rievoca il dolore dato da quei pensieri.

Tutto è in discesa…

Scopriamo cosa ha causato la crisi. Ho costantemente avuto il sentore che sarà ricoverata, perché non è normale una crisi così violenta, una crisi che non termina se non con l’intervento di una bombola di ossigeno sparata nelle vie respiratorie, e infatti ci dicono che la portano in un ospedale specializzato in apparato respiratorio.

La vedo mentre la trasportano sull’ambulanza per il passaggio da un ospedale all’altro.

E’ la prima volta che la vedo, dopo quella mattina – dopo che mi aveva salutata nel corridoio, lei in direzione delle sue commissioni, io in direzione delle mie – e ha la bombola dell’ossigeno, la maschera respiratoria, agocannula nelle mani…

La cerco con lo sguardo, mi avvicino mentre non si fermano, la seguo e la guardo negli occhi. Non sorride, non è la lei di sempre, è stanca, la vedo provata. Io invece vorrei che mi guardasse in faccia con la sua familiare espressione da “Eheh, ve l’ho fatta!!”. No, non ride, non scherza, non mi rassicura. Cazzo, non mi rassicura.

Mamma, cosa cazzo ti è successo?

Sono mancata proprio. Sono cascata. Mi è mancato il terreno da sotto i piedi, e vederla lì, viva e sotto controllo non mi è servito, perché mi è stato toccato un punto vitale.

E mi rendo conto che ho cinque estremità vive e costantemente a rischio che circolano lì fuori, che al loro minimo cedimento possono seriamente compromettere la mia tranquillità, la mia serenità, il mio equilibrio.

Mentre andavamo alla macchina per spostarci d’ospedale, inizio a piangere, a buttare fuori una disperazione che mi è montata dentro da un paio d’ore a quella parte.

Mio padre mi stringe e dice di non avere paura, che sta meglio.

Io dico solo “Troppe cose, tutte insieme” perché questa mazzata è l’ennesima ed appartiene al genere che non avrei mai voluto dover affrontare. Sto protestando, in fondo, non voglio anche questo, porca puttana!

Non ricordo bene in quale fase riesco a vederla e parlare con lei. I ricordi sono un po’ confusi, però io sto morendo dalla voglia di guardarla, di parlarle, di capire se è sempre lei, lei, lei!

E mi chiede “E voi?”. La guardo, le rispondo “Noi? Tu!!”, ma non vado avanti, perché sto riniziando a piangere, non sono capace di mantenere in piedi un discorso. Lei mi vede a pezzi e mi dice che non devo fare così, mi dice che devo resistere e stare su, però io non starò su finché non sono certa che lei è sempre lei. Che niente è cambiato, che tutto è come prima.

Posso prendermi tutte le responsabilità che devo, però lei deve essere sempre lì. Devo saperlo.

Sono diventata bambina e volevo essere avvolta da una coperta e presa in braccio da lei.

Mentre lei mi ha guardata trasmettendomi un messaggio “Ti lascio tutta la gestione in mano, mi raccomando”, tacitamente.

Ho passato ore strane, momenti in cui mi veniva da piangere improvvisamente, finché non è entrata in quella stanza e non sono potuta andare con lei, avere un momento completamente da sole insieme… e allora ho fatto i miei piccoli stupidi test: abbiamo parlottato un po’, l’ho riconosciuta. L’ho trovata stanca, indebolita, e me la sono stretta tutta. L’ho abbracciata, l’ho guardata con tenerezza e amore.

La mia mammina.

L’amore è immenso, è una cosa fantastica ma anche disastrosa: quando capitano situazioni del genere, è un sentimento che sa distruggere, che sgretola tutto, che annulla certezze e qualsiasi consistenza granitica.

Sono morta e rinata.

E questi giorni, quando sono a casa con i miei uomini, sono un militare, impartisco ordini e gestisco i ritmi, quando sono con lei, mi trasformo in una bambina: le stringo la mano, la accarezzo e la guardo con un’espressione nel viso che nessun’altro è mai stato capace di generarmi. Mi basta anche stare zitta, lì vicino, e guardarla, e sentirla parlare.

Viva, con i polmoni pieni d’ossigeno, circondata da noi.

Ieri l’ho salutata mentre andavo via, al termine dell’ora delle visite, e le ho sussurrato all’orecchio “Mai più, mamma, mai mai mai più!!”.

E, più dicevo mai, più la avvolgevo.

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