Mio marito è cuoco e ho sempre avuto – forse ingenuamente – la convinzione che il suo settore non avrebbe mai conosciuto crisi.

I ristoranti si sono sempre riempiti di persone abituate a concedersi una coccola settimanale, famiglie riunite per compleanni, cresime e battesimi, coppie ai primi appuntamenti o alle prese con anniversari, gruppi di lavoro in riunione o celebrazione di fine giornata

Eppure, il COVID ha spazzato via questa certezza e – nonostante entrambi abbiamo lasciato la Sardegna per godere di nuove possibilità – continua a non essere facile trovare, per lui, una stabilità.

Siamo in quella particolare fase in cui, appena passato il terremoto, si ha l’istinto di voler ritrovare quel che le macerie hanno sepolto e, con uno scatto infantile, si raccolgono e mettono l’una sull’altra alla ricerca di una parvenza di quel che è stato fino a poco prima.

Il che è un errore, se si segue questo istinto fino a perdere ogni risorsa ancora in possesso.

E’ necessario trovare un’alternativa, evolversi

A casa abbiamo spesso parlato del fatto che la vita dei lavoratori nella ristorazione sia complicata e insostenibile a lungo termine e, in questo momento, affrontare la questione è stato di vitale importanza.

Qualsiasi piega prenda la mia vicenda personale, ci ho ragionato sopra partendo dal presupposto che cambiare professione preveda un progetto e una formazione, ma c’è un aspetto molto importante della vita dei ristoratori che spesso non viene preso in considerazione, che costituisce grande ostacolo per una simile impresa e spiega come mai – il più delle volte – si nasca braccianti di cucina e si muoia nella stessa posizione.

Spesso, chi lavora nei ristoranti, passa le ore attorno al pranzo e alla cena sul campo.
Tradotto (piùùù o meno): dalle 10 alle 15 e dalle 18 alle 24.
Più tutte le feste e tutti i weekend e, generalmente, il lunedì a casa per la chiusura.

Premetto: chiunque lavori con questi ritmi non dovrebbe passare il tempo a cercare di cambiare vita perché si spererebbe faccia tali sacrifici per la sua massima vocazione inoltre, così non fosse, la ristorazione è sempre stata un ottimo jolly come lavoro extra per i weekend e, per quelli non fortemente motivati, ha costituito una fonte redditizia di impiego nel settore, in previsione di un netto colpo di coda per trovare la giusta strada.

Messo in chiaro che non ho l’intenzione di piangere sul latte versato, stavo ragionando su come ci si possa reinventare se la più grande – e spendibile nell’immediato – abilità di qualcuno sia proprio stare ai fornelli

Cuoco a domicilio

E’ un progetto che necessita di grande pianificazione, perché non si può improvvisare nella stessa cucina dove si preparano pranzo e cena per la propria famiglia con prodotti acquistati per uso personale ma, essendo quel che è più vicino allo smart working nell’ambito della ristorazione, è certamente il momento giusto per osservare da vicino questa realtà.

Qualsiasi forma di business che si basi sulla vendita a terzi di prodotti alimentari elaborati prevede delle specifiche accuratezze, (più o meno) le stesse richieste ai ristoratori al momento in cui hanno imboccato il sogno di aprire la loro personale locanda.

  • Autorizzazione della Asl che attesti il rispetto delle norme previste nella propria cucina-laboratorio.
  • Segnalazione Certificata Inizio Attività (SCIA) presentata e depositata allo sportello unico delle attività produttive (SUAP) del proprio Comune;
  • Certificazione Haccp (da Regolamento CE 852/2004);
  • Possesso di Partita IVA
  • Iscrizione in camera di commercio, sezione artigiani.

Non è necessario, invece, dimostrare di poter dare ospitalità ai clienti quanto, invece, è di vitale importanza organizzare una precisa impalcatura che regoli: presa degli ordini, consegne e relazione con l’aquirente a distanza.

Non è certo una passeggiata improvvisare il tutto, e infatti sono avvantaggiati i lungimiranti che hanno proposto l’home service dal proprio ristorante ancor prima dell’emergenza COVID.

Quel che stride nel loro modello di business è la sostenibilità.

I canoni di locazione dei locali adibiti alla ristorazione (e i vari costi collaterali, come l’investimento per la realizzazione di locali da bagno idonei) sono sempre stati proporzionali al presunto fatturato di attività che accolgano una certa quantità di ospiti e, al momento, il trend della vendita da asporto non è ancora un’abitudine consolidata anche per via dei prezzi che, ancora, vengono formulati per coprire le spese di attività non pensate espressamente allo scopo dell’esclusiva vendita e consegna a domicilio.

Kitchen & restaurant: virual, dark e ghost

Stiamo vivendo un epocale momento di svolta nel quale aleggia ancora una forte resistenza al cambiamento alla quale si mescola la ricerca di nuove formule per resistere all’impatto.

Il discorso sui ristoranti lungimiranti di cui sopra nasce perché ho scoperto l’esistenza di forme di business che rispondono ad ogni criticità del momento e consentono di mantenere una regolarità nello svolgimento della professione dal punto di vista legale e continuativo.

Il punto è che non si può più concepire la preparazione di cibo per terzi che consumeranno sul posto – per quanto speriamo tutti che si possa ritornare ad andare in ristorante, pranzare fuori, fare aperitivo nel dehor di un locale alla solita maniera – come assoluta e unica normalità.

La ghost kitchen – o cucina fantasma – è una tipologia di attività ristorativa professionale in cui la cucina è rivolta alla sola vendita a domicilio.
Non è prevista sala per la consumazione sul posto, luogo in cui accogliere i clienti per il take away e insegna, marchio, logo e identità sono esclusivamente online.
Una ghost kitchen può avere uno o più virtual brand (marchio virtuale).

Per intenderci: il ristorante da Giancarlo – cuciniamo per voi dal 1962 che non si arrende all’arresto del COVID e inizia a vendrere online pietanze da sempre proposte nel suo menu con una promozione che richiama fedelmente il suo marchio non è una ghost kitchen, ma una dark kitchen.

Le dark kitchen sono state l’evoluzione naturale di tutte le cucine dei ristoranti che, da aprile, per continuare a vendere hanno dovuto forzatamente organizzare consegne e ordini via telefono/internet.
La loro sala è diventata inutile ma, nascendo come locale per accoglimento del pubblico, hanno sempre potuto ricevere i clienti per consegnare la merce da portare via (che invece non è prevista nel concept delle ghost kitchen).

Ci sono poi i Ghost Restaurant, che sono vere e proprie realtà online, esistenti legalmente solo sul web – marchio compreso – e che, per la vendita, si appoggiano ad un e-commerce strutturato autonomamente o ad app apposite di sponsorizzazione come Just Eat, Glovo, Uber Eats.
Diversi ristoranti sfruttano la cucina secondo il sistema appena illustrato, proponendo il proprio brand o qualcosa di completamente nuovo (virtual brand) conciliandosi quindi con i concetti di ghost kitchen e dark kitchen già menzionati.

Le ghost kitchen che si costruiscono su format già esistenti – secondo la conosciutissima forma del franchising – si chiamano, infine, Virtual restaurant.
Si tratta di forme di collaborazione in cui non è previsto l’allestimento di locali abbinati al brand, con conseguente abbattimento dei costi, sulle quali i franchisor pare abbiano l’attenzione puntata in questo momento.

Le ghost kitchen sono, di fatto, la forma più intelligente di evoluzione della ristorazione tradizionale e, perché funzionino, la gestione dell’investimento dovrà vertere principalmente su una strumentazione adatta e performante per garantire qualità nella produzione e nella consegna

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