Per dieci anni ho svolto lo stesso lavoro.

È stata un’attività che per tanti motivi mi ha avvelenata, cambiata e annichilita.
Accenno qualcosa nella pagina in cui mi presento e mi piace molto come sia riuscita a parlarne.
Sembra che stia riuscendo a scindere ciò che devo mantenere da quel che devo sapermi lasciare alle spalle, conservando i buoni ricordi e le vittorie e accettando i fallimenti di cui sono stata in gran parte responsabile.

L’anno scorso ho lasciato andare quel contratto a tempo indeterminato al quale credevo non avrei mai potuto rinunciare.

Immaginate un cassiere un po’ distratto con lo sguardo perso e l’espressione da “non fatemi domande, aspetto solo la fine del turno”.
Ero esattamente così, me ne rendevo conto ed ero convinta di essere nel giusto.

Avevo le mie ragioni.
Il che è diverso e non prevede avessi effettivamente ragione.

Da un certo momento in poi ho smesso di avere una dignità professionale: accettavo passivamente il fatto che non fossi più appassionata al lavoro che svolgevo e quindi anche di non impegnarmi ad eccellere, mi assicuravo di essere puntuale e garantire la resa minima indispensabile.
Non mi guardavo intorno e non progettavo cambiamenti, stavo ingabbiata e lasciavo che la frustrazione straripasse da espressioni e comportamenti

Avevo – e ho ancora – dei vincoli che mi rendevano cieca davanti alla possibilità di orientarmi altrove, non mi facevo ispirare da nulla e credevo che, un giorno improvvisamente mi sarei rassegnata, e anche tutti intorno a me.

Non sono riuscita a voltare pagina senza esitazioni.
Mi sono rifugiata nella richiesta dell’aspettativa per prendere tempo e capire come sarebbe potuta andare.

Sono passati pochi mesi e non ho ancora trovato il mio porto sicuro, dal punto di vista lavorativo, ma sono giunta in un accogliente arcipelago.

Le sue isole sono colorate e tutte da esplorare, sorrido ai loro abitanti e loro ricambiano compiaciuti.
Dopo un primo approccio in cui portavo addosso ancora i vestiti della vecchia me, mi sono lentamente spogliata ed è stato bello vedere riflessa una diversa immagine negli occhi altrui.

Avevo perso questa sensazione da molto tempo e credevo di non volerla più sentire perché sicura che ogni lavoro mi avrebbe imbruttita nello stesso modo, a lungo andare.
Forse è vero, ma si può cambiare, e questo invece non lo credevo assolutamente possibile.
Serve volontà e tanto appoggio.
Non è un percorso piano.
Più delle possibilità scarse e dell’esperienza nulla che si porta con sé quando ci si propone ad un nuovo target di possibili titolari, ci sono gli ostacoli psicologici personali.

Sono pronta? Sarò abbastanza capace? Imparerò nei tempi giusti? Sarò capace di soddisfare le aspettative e mettermi in pari con i colleghi più anziani? Saprò farmi volere bene e farmi accogliere a braccia aperte?

L’ultimo giorno pre-Natalizio in cui ho visto le persone con cui lavoro a cadenza occasionale, ho ricevuto da tutti un regalo e un “torna presto”.
Sette mesi fa non sarebbe successo.

Occasionale ha sostituito indeterminato

Ho libertà di organizzare il mio tempo e riesco a occuparmi di più cose di prima, ho scelto un contesto di vita più sereno e ordinato, scontrandomi con errori che, ancor prima che nell’ambito lavorativo, commettevo nella sfera personale.

Vivere sulle sabbie mobili non lascia mai libera la mente e impedisce di sentirsi al sicuro finanche sulla terraferma.

Per un contratto fisso e sicuro ci sarà tempo ma voglio compiere al meglio il viaggio, perché la destinazione sia solo il coronamento di un cammino in cui ho vissuto a pieno.

Ho corso tanto nella mia vita – oppure sono stata a lungo immobile – e non mi sono presa mai i giusti tempi per esplorare attentamente i tratti del percorso che stavo conducendo per scegliere se continuare o andare altrove, comunicare con chi incontrassi nel sentiero, scoprire anfratti nascosti e imparare i segreti della spedizione.

Mi sono presa il tempo per capire se sarebbe valsa la pena scegliere con il cuore il lavoro al bar?

Mi ha talmente fatto comodo aver avuto subito una proposta di contratto a tempo indeterminato che ho preferito non pormi tante domande: ho ottenuto “sicurezza” ma perso l’occasione di farmi stimolare dalla precarietà.
Non ho mai stabilito se mi piacesse fare proprio quello e se corrispondesse all’immagine della me adulta che avevo da bambina.

Credevo che, visto che il torto lo facevo principalmente a me stessa, non fosse il caso di farne questione nazionale.
Una cosa tira l’altra, così ho dato la stessa piega a tutto.

Ho ricavato una forma a colabrodo: da ogni gesto traspariva fastidio e insofferenza e la scia di malcontento mi accompagnava costantemente, avvelenando anche chi avessi intorno.
Complicato concepire un’alternativa o rendersi conto che la fretta di parlare e muoversi fosse sintomo di un profondo disagio.

A Natale sono andata a trovare la mia famiglia d’origine, quindici giorni in cui ho ripreso la vita che mi ero lasciata alle spalle e, inesorabilmente, mi sono sentita dire “Sei cambiata”.

Il tono era malinconico e anche io lo sono stata per tanti motivi ma sono certa di aver perso buona parte di tanta malsana immobilità.

L’ho notato osservando criticamente gli altri mentre si comportano come la me di qualche tempo fa senza farmi più coinvolgere empaticamente.

Essermi giustificata a lungo mi faceva accettare le storture del prossimo e perdere la volontà di contestare.

Mi sono dovuta spostare fisicamente, è servito un cambiamento radicale.

Watzlawick lo chiama Cambiamento di tipo 2

“Una persona che ha un incubo può fare molte cose nel suo sogno: correre, nascondersi, lottare, strillare, saltare da un dirupo, ecc. ma nessun cambiamento da uno qualunque di tali comportamenti a un altro porrebbe mai fine all’incubo. D’ora in poi ci riferiremo a questo tipo di cambiamento come al cambiamento 1. L’unico modo di uscir fuori da un sogno implica il cambiamento dal sognare all’esser desti. L’esser desti, evidentemente, non fa più parte del sogno, ma è un cambiamento a uno stato completamente diverso. D’ora innanzi ci riferiremo a questo tipo di cambiamento come al cambiamento 2.

(Paul Watzlawick, John H. Weakland, Richard Fisch,Change, Astrolabio, 1974 Roma, p. 27)

Ma la realtà è che, ovunque io vada, il cambiamento più importante sarà quello che riuscirò a fare su me stessa e il contesto, di conseguenza, risponderà alla persona che sarò diventata.

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